27 marzo 2015
di Salvatore Arena
Produzione Scena Nuda | Regia Filippo Gessi
con Luca Fiorino
costumi Giulia Drogo
luci Antonio Rinaldi
musiche Giovanni Puliafito
assistente Gabriele Furnari Falanga
“Icaro” è un invito all’ascolto di tutti gli ultimi che ci circondano. Di quelli che vivono ai margini della città, alla periferia dell’indifferenza. Scelto il tema, il mito di Icaro, la parola si modella sul corpo dell’attore e il mito viene stravolto, deviato verso un dramma che affiora piano piano e del mito restano soltanto le piume. Ecco comparire Icaro-Vanni. Un qualunque uomo, di un qualunque sobborgo di Calcutta, Milano, o New York. Lacerato dalla perdita, dall’abbandono, cerca una salvezza dentro se stesso, ali come un’ancora per volare sopra l’abisso del suo dolore, almeno una volta. La variazione cromatica della scrittura, siciliano nella prima parte, italiano nella seconda, è una scelta necessaria che crea un solco, dilata il tempo, lo storpia, lo rallenta, perché il protagonista possa capire dov’è il nodo, dove lo sbaglio e come espiare la sua colpa e affrontare la trincea di questo suo squarcio. Perché il raccontare possa essere per lui rifugio, caverna primordiale dove sedersi a guardare nel fuoco dell’ inverno i suoi demoni e vederli bruciare. Affidarsi a tutte le Madonne per far scorrere indietro il tempo e impedire al quel cuore di bambino di sanguinare ancora. Per definire i contorni estremi del dramma servono affermazioni e negazioni, che rendano il corto circuito mentale in Vanni, un immaginario fatto di suoni, di ripetizioni a ricreare la logica del caos-pensiero del protagonista. La scrittura è un continuo salto temporale tra presente e passato, tra desiderio di salvezza e necessità di consumarsi, di bruciare le ali in volo. Cadere infine nel profondo blu, là dove il mare è madre e padre, là dove il mare è mare.
Salvatore Arena
Chi è Icaro per Vanni? Che cos’è il volo per questo Icaro moderno? Perché continuamente anela il cielo? Vanni era un uomo. Un uomo che aveva lavoro e pane. Una moglie. Aveva un figlio. Adesso vive nella piazza di un paesino. Vive in un suo labirinto. Il labirinto della sua mente. Il labirinto del suo corpo che non sa dove si trova e dove andare ed è portato continuamente dalle infinite vie senza uscita. Solo guardando in alto può vedere il cielo e sperare di trovarne una. Non ha il tempo per pensare, per riflettere, per ricordare…
Chi vorrebbe ricordare il dolore? Così Vanni sopravvive, male, ma sopravvive in un turbinio di immagini, di visioni, di voci che si susseguono senza soluzione di continuità, senza residui tra l’una e l’altra. Il suo corpo agisce in questo labirinto portato senza volontà come una piuma portata dal vento. Il vento, il cielo. Questo vuole diventare, per non essere più uomo, per cambiare questa carne e farla più leggera dell’aria.
Non c’è volontà nel voler ricordare eppure il suo è un viaggio involontario in quella direzione. Un’ autoterapia dopo uno shock post-traumatico che lo porterà a ricordare quello che era un tempo. Il ricordo si fa consapevole, il labirinto si apre, il cielo lo aspetta…
Perché vuole volare, vuole essere altro, essere Icaro e come Icaro cadere giù in picchiata nel suo ultimo volo.
Filippo Gessi